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PIEMONTE ALESSIA

Da piccola quando andavo a casa di mia nonna a Napoli, mi piaceva prendere il caffè ristretto preparato da lei, di nascosto dai miei genitori, perché deploravano che fosse per me un po’ troppo precoce, delibare quella bevanda. Ma mia nonna, furba, come se fosse alloglotta, cioè che parla una lingua diversa da quella ufficiale della maggioranza, quando i miei si assentavano per le loro commissioni, preparava meticolosamente quel caffè. I miei sensi del gusto e dell’olfatto provavano un’apoteosi orgastica quando inalavo a narici spalancate l’odore flessuoso e penetrante, e la mia lingua con quel sapore caldo, vivace e forte, ballava la samba con la saliva. Dopo un po’, con la tazzina in mano, andavo nella soffitta e venivo subito avvolta dall’effluvio della muffa che si mescolava armonicamente con la fragranza che evaporava nell’aria in tante edere fumanti del caffè.

In fondo, quasi appaiato alla finestra rotonda, su un muro pieno di manifesti di propaganda scoloriti, svettava un quadro ovale. Era una raccolta di foto in bianco e nero dei miei avi. Mi aveva incuriosito, a differenza di tutte le altre anticaglie. E poi, mi è sempre piaciuto sondare quei sorrisi e sorrisi emblematici, che appartenevano in un tempo ancestrale, ma mai sfinito, per chi come me lo cerca ancora. La superficie in vetro del quadro era incrinata negli angoli e macchiata da ciocche di polvere, ma il debole raggio di sole obliquo che penetrava dalle veneziane, rischiarava quelle espressioni stoiche e severe.

Chiusi in un attimo gli occhi. Del fosforo bianco come gli spiritisti vittoriani, riempì la mia mente, insieme a un’orchestra di voci che riscaldava quel freddo desolato dell’abbandono, dove erano imprigionati. Riuscivo a vedere come scintille di fuoco le loro storie scolpite. Immaginavo, con l’anima che frusciava di emozioni, qualche giallo alla Poirot, storie di fantasmi, o personaggi della commedia teatrale neorealista di Eduardo De Filippo. La mia fantasia era anche titillata dai retroscena svelati da mia nonna: diceva che ogni parente coincideva nelle sue peculiari sfaccettature con uno dei sette peccati capitali.

Il primo, il bisnonno Gennaro Caputo. Lui si vestiva bene…della superbia. Era una persona colta, distinta, educata, benestante, con uno scibile da impallidire, ma purtroppo, aveva una radicata e orgogliosa convinzione della propria superiorità, traducendo in rigido disprezzo verso gli altri, anche con i familiari. La moglie, Agostina Pica, era l’avarizia. Aveva una forte avversione nel donare, nemmeno per un tornaconto. Agostina e Gennaro, avevano concepito tre figli: Eduardo, Lucrezia e Filippo.

Eduardo, gola. Infatti, morì a soli 20 anni di diabete. Si narra che lui spegneva con il cibo il dolore di essere stato abusato a 10 anni da un vicino di casa e lo aveva raccontato solo al fratello Filippo, con cui era molto legato. Lucrezia, invidia. Anche se viveva nello sfarzo, era infettata del suo malanimo di ottenere anche la prosperità degli altri, perfino nelle bagatelle.

Filippo, accidia. Una persona di buon cuore, forse l’unico savio di mente della famiglia, ma era molto neghittoso e ostile nell’operare anche per una banalità. Spendeva le sue giornate a poltrire nella banquette di casa, sfogliando libri o divagando nella sua entusiastica fantasia. Però, Filippo, fu l’unico ad avere dei figli. Mia nonna Giulia, e i suoi fratelli Arturo e Titina, ma quest’ultimi, non furono esenti dai peccati capitali. Titina, ira. Essendo stata denigrata per il suo aspetto incartapecorito e per la sua balbuzie, era rancorosa con il mondo riversando tutta la sua violenza verbale e fisica, al punto che finì in galera per rissa. Arturo, lussuria. Un galantuomo, generoso, gentile, buono, ma…era vulnerabile ai piaceri della carne, ammalandosi di gonorrea, ma riuscì a salvarsi miracolosamente.

E con questo canovaccio, si alzava il sipario affinché i miei parenti, nella loro figura espressiva, potevano esibire le loro asperità, con emozioni leggibili che si intrinsecavano nel reale, ma tutto, per dare una nota di colore al perimetro del racconto.


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