http://www.elisabettamarinello.it/foo.html 2018-06-04 http://www.elisabettamarinello.it/foo.html 2018-06-04
SERRA GIOVANNINO

Stavo lì, seduto sui ruderi del ponte vecchio, ad osservare l'esile filo d'acqua, torbida, scorrere faticosamente fra le gramigne e le canne, illuminate dal pallido e sbiadito sole d'ottobre. Il fresco serale accentuava la triste realtà delle rive ingiallite dai veleni che, dai campi, si riversavano impietosamente nel fiume. Sentivo nella golena, l'assordante e continuo rumore delle motopompe, succhiare l'acqua, quella poca che ancora riusciva a raggiungere il mare. Osservavo sgomento i pochi, sparuti, uccelli superare le sponde in un battere d'ali deluso e sparire oltre le canne di S'Isca. L’ultima piena aveva trascinato con sé i tristi cimeli: bidoni vuoti di plastica ancorati fra le radici scoperte degli olmi, a significare il progresso, la civiltà, o l'avanzare dell'imbecillità? Più in là spuntavano immersi nel fango una carcassa di lavatrice, un televisore quattordici pollici, (chissà se aveva pagato l'abbonamento!), altri giocattoli buffi appesi alle fronde dei salici: un Pippo zoppo, un leone orbo e spellato ed i resti di uno Zorro mancante di d'onore e di gloria. E l'ingombrante motore chi lo aveva buttato?

Dopo un anno dalla morte di Zonach ero lì sulle vecchie rovine a ricordare quanto ancora riuscivo a scovare nella memoria, di quando nuotavo sotto l'arcata del ponte nuovo.

Il soffio leggero dello scirocco muoveva appena le tife gialle, appassite dal sole d'estate, guardanti il cielo in una muta preghiera. L’ondulazione data dal vento mi riportava, in qualche modo, alla tenue risacca marina. In lontananza sentivo il triste abbaiare di un cane, mischiato al disperato richiamo delle ultime folaghe.

Mi feriva il cuore ricordare l'adolescenza, il vecchio Zonach, il fluire della corrente quali dolci carezze suadenti e accattivanti sentimenti d'amore. Mi sembravano, lo stormire degli ontani, un fruscio di pianto, come il gracidio delle rane un lamento rivolto al cielo, così le rauche grida dei tarabusi un’invocazione agli dei indifferenti e crudeli.

Il vecchio Zonach soffriva, al pari di me, in quelle ultime giornate ottobrine, davanti ai ciuffi morenti di menta, agli equiseti ridotti a grovigli di inerti filamenti legnosi, alle sponde brulle, un tempo simili a curati giardini multicolori. Sospingeva il fassone – barca di tife - fra le rive, sfiorando dolcemente i ranuncoli, le ninfee e inebriandosi dei garruli canti dei merli sulle fronde fluenti dei salici.

Zonach voleva morire e se ne andò in silenzio. Lo disse in una notte di luna serena al di sopra degli olmi lungo la sponda opposta…

«C'è un giorno nella vita dell'uomo in cui si accende una luce mai vista, in cui si avvertono sensazioni indescrivibili, e questa sarà la mia notte d’addio.»

Risi di cuore per scacciare quell’immagine triste, mangiai e solo dopo capii quanto lui fosse saggio e reale.

A quel modo avrei voluto morire anch'io: cullato dal dolce e suadente mormorio della corrente. Lui e la sua vita, le storie, la stessa pietra ove raccontava del tempo passato, e scese il silenzio: attorno si zittivano i grilli, le raganelle ed il grido di una madre oltre la Chiesa.

«Quest'acqua era la vita, si beveva senza paura, senza far male, le donne riempivano le brocche di terra e le portavano dritte sul capo.» 

«Non sempre era buona, con le piene s'intorbidava o per qualche altro accidente.» Dissi un po' scettico.

«Di certo è vero, allora si andava alla sorgente, oggi scomparsa, nella salita di S'Isca, oppure si attingeva dai pozzi, non sempre il fiume si teneva pulito.»

«Né minerale, né birra.» Dicevo scherzando.

«Neppure acquedotti e rubinetti in paese, ed a luce di lume ad olio.» Aggiungeva lui.

«Senza televisione, né bagno, il medico due volte al mese, si stava meglio in galera.» Lo pungevo ogni volta e un po' si risentiva.

«Già, le porcherie del progresso: i detersivi, la plastica, i diserbanti, i pesticidi, è meglio così?» A quel punto gli davo una pacca e si rabboniva. Come quasi la maggior parte dei vecchi s'impermalosiva. 

Poi indicava una conca, una sorta di piccolo golfo, lastricato di pietre.

«Più in là, ove l'acqua scorre più lenta v'era la festa della vendemmia.» E s'infervorava, gli luccicavano gli occhi e gli tremava la voce. Pian piano, coi gesti e le parole spiegava l'antico evento.

«La festa si sentiva nell'aria, le bigonce venivano calate in acqua per rinsaldare le doghe, slargate durante i mesi d'inattività. I carri cigolavano di buon mattino sotto l'ombra degli olmi, seguiti da bambini vocianti e madri apprensive. Si vestivano a festa le sponde coi lauri, i fiori d'autunno orlavano i carri, e si buttavano in acqua le giovinette per propiziarsi lo sposo.

Il fiume si colorava di fece in una lunga scia di odori vinosi, ed i pesci saltavano ubriachi oltre le botti, così si credeva. E forse era vero. E Zonach rideva. Venivano dai paesi vicini ed era la migliore festa dell'anno. Le donne mescevano in ampi boccali il vino della passata vendemmia, robusto e forte al palato. Le bigonce e le botti sostavano in acqua per dieci giorni e più, fino a quando potevano ricevere il mosto. Appesantite, venivano tolte dal fiume con grande fatica.

Ricordo una piena a settembre - seguitava a narrare il vecchio Zonach, divertito negli occhi - prima che scoppiasse la guerra, un'estate estenuante aveva arroventato il paese e nulla faceva presagire i diluvi in quel mese. Le botti ed i tini maceravano tranquilli fra i pesci ed i giunchi. Il dolore alla spalla si fece intenso e ne capivo bene il significato. Mi risero dietro le donne e gli uomini quando affermai ch'era in arrivo la piena, dissero ch'ero uscito di senno a causa del sole: mi spiaceva per loro, per i loro attrezzi e me ne andai triste e deluso. Misi il "fassone" in secca, vedi quello spiazzo davanti al Nuraghe Ruiu? - disse indicandomi il posto - lì v'era una collinetta andata distrutta per costruire le case in mattoni crudi. Metà paese è fabbricato con quella terra. Le piogge iniziarono all'improvviso, insistenti, interminabili; il continuo scrosciare ammollò il paese, le strade, e non si poteva passare. La massa d'acqua scese dai monti travolgendo ogni cosa: le botti ed i tini furono travolti come fuscelli a Mare Foghe.

Fu un’annata strana, balorda. Dopo la piena venne un caldo africano: rigermogliarono le viti, morirono le api, il fiume si prosciugò e migliaia di pesci rimasero in secca. La natura sentiva la guerra nell'aria, ed essa scoppiò violenta chiamando a sé la gioventù, i padri di famiglia e lasciando in paese le mogli, le fidanzate affrante, i bambini piangenti ed i vecchi rassegnati e malati. Avrei voluto esserci anch'io e dividere le sofferenze ed i disagi ma il destino volle altrimenti. Caddi dall'asino in corsa, che si era infatuato di una femmina e mi ruppi una gamba e tre costole.»

«Il fiume è cambiato da allora.» Dissi sopra pensiero. Zonach divenne triste e si adombrò, alzò il capo al cielo, quasi cercasse un conforto impossibile e seguitò a parlare.

«Vedi lo scempio, e non dare la colpa agli altri, io, tu, tutti, abbiamo peccato: cos'è un fiume di fronte al bene comune, ai campi ordinati, alle colture lussureggianti, al guadagno che dà benessere al contadino? Che importa se mancano i pesci e gli uccelli, se le terre possono essere irrigate e coltivate? Oggi nessuno si cura di questo fiume, potrebbe risorgere se solo … capisci?»

«Fra qualche anno sarà scomparso per sempre - considerai - quasi a me stesso - è invaso da una coperta di canne, non se ne cura nessuno, verrà, ahimè, trasformato in un canale anonimo, senza i salici, gli olmi, i pesci e gli uccelli.»

«Dio non voglia - rispose Zonach - sarebbe offendere Dio e la natura.»

Una tartaruga di un verde intenso fece capolino sulla gramigna che si tirava in secco, guardinga.

«Non conta più nulla, senza di esso non sarebbe sorto il paese. Gli uomini lasciarono i nuraghi per una vita più comoda: un corso d'acqua costituiva ricchezza e benessere.»

Zonach parve riflettere e d'improvviso si alzò.

«Vieni con me.» Già s'inoltrava fra la menta, le tife ed i giunchi. Superammo l'argine ed uno stretto passaggio di canne. Sbucammo con non poca difficoltà da un intreccio di rovi e Zonach m'indicò una parete ove s'intravedeva un muro di pietra corroso dal tempo e dalle acque.

«Osserva con attenzione.» E scostò dei convolvoli intessuti coi rami degli olmi pendenti da sopra un cornicione invaso dalle erbe spontanee.

«Il vecchio ponte.» Esclamai e ricordai le descrizioni degli anziani, le loro peripezie, le piene, e la dolorosa vicenda dei bambini annegati.

«Qui vi scorreva il fiume liberamente e senza le costrizioni di adesso. D'inverno l'acqua allagava la vasta spianata di "S'Isca", portando la terra dei monti e d'estate i verri pascevano immergendosi nelle pozzanghere. Correvano, negli erbai naturali i puledri, e i contadini seminavano i chiusi in armonia con la natura, e quanta grazia di Dio sotto il sole e sopra la terra: angurie, meloni, spighe pesanti di chicchi piegate al suolo, patate, ed ogni sorta di pesci nei fossi, e selvaggina pennuta ovunque. Eh… - sospirò il vecchio Zonach - allora ero in forze e attraccavo spesso presso i ruderi affioranti sulla riva destra, prima di arrivare a Tramatza.»

Un lampo mi attraversò la mente.

«Quelli distrutti durante il riordino?» Chiesi apprensivo.

«E’ stato solo il tempo di una stagione. Ciò che l’uomo aveva costruito nei secoli venne cancellato in un’ora. M'incuriosivano quegli strani disegni sui pavimenti, le vasche, ed altre cose sparse un po' dappertutto.»

Allora ero poco più che un ragazzino imberbe e riandai con gli anni a quello scempio: rividi nitidamente le ruspe avanzare sopra i mosaici, schiacciare le brocche, abbattere i muri, le colonne, profanare le tombe e lasciare una scia interminabile di inutili cocci.

«Un posto stregato, vi abitano ancora gli spiriti e le anime dei condannati.» La buttai sul mistero per sdrammatizzare il momento. Zonach mi rassicurò che non credeva a simili cose.

«Storie di focolare, ma in paese c'è chi ci crede e dice di avere visto il carro dei morti uscire dalle rovine, attraversare il fiume e percorrere di notte le strade deserte. Una volta ogni anno per ognissanti il Gran Conducente, con in testa un cappuccio nero, da cui spuntano due occhi di brace, prende le anime in agonia e le porta nelle rovine di Ponti Zoppu.»

«Vi è un'aria di mistero in quel posto.» Dissi un poco serio.

«Non sai della terra che si apre ad un comando e vi entra il carro con gran sferragliare di ruote?»

«No, mi raccontavano storie di guerre.»

 «Io ci ho creduto fino all'età del militare.» Ridemmo assieme, sentimmo lo squittio di una donnola uscire dai massi disordinati del ponte.

«Da qui sono passati banditi, regnanti, monsignori e San Sisinnio.» Zonach divenne serio e volli sapere.

«Ho sentito di Buzzerrone e di un certo marchese.» Il pescatore fece un cenno come a scacciare un fastidioso insetto.

«Nessuno ci crede di Buzzerrone, che l'abbia visto, conosciuto e parlato, degli altri banditi so solo per sentito dire, ma lui l’ho toccato come San Tommaso con Cristo.»

«Hai incontrato quel sanguinario?» Dissi scetticamente. Dalle vicende, narrate nelle giornate d'inverno, c'era il detto: "Vedi Buzzerrone se hai confessato".

Zonach rise fino alle lacrime e si batteva la pancia.

«Temeva i biacchi e piangeva come un bambino per la puntura di un ape, macché sanguinario, macché bandito strozza preti, storie inventate per i bambini monelli.»

«La gente diceva, raccontava di tremendi delitti, morti ammazzati, donne violate, rapine, sequestri e che avesse fatto un patto infernale.» Zonach divenne serio, col sorriso negli occhi.

«Un poveraccio che si spaventava della sua ombra. Nelle sere d'inverno, quando il fiume ingrossava, lo ritrovavo seduto accanto al fuoco, e parlava della sua esistenza. Non capiva nemmeno lui perché fosse diventato bandito: un caso, di quelli non voluti e appioppati dal crudele destino. Una banale lite nella festa di Santa Sofia: un diverbio di campanile. Cadde un giovane trafitto al cuore. Buzzerrone, intontito dal vino, si ritrovò nella calca senza sapere che fare. Rimase a vagare per la campagna, confuso e disorientato. Cadde in un fosso e dormì l'intera notte inconsapevole colpevole del delitto consumato a sue spese. Venne una mattina d'inverno e lo trovai, tremante, davanti al fuoco. Nel dopoguerra regnava la confusione e la fame chi avrebbe creduto alla sua innocenza? Così rimase il pericolo numero uno: l'uomo da battere, il sanguinario bandito temuto in ogni contrada. Un omicidio, un rapimento, un qualunque delitto: "è Buzzerrone" accusava la gente, e quella fama si spandeva oltre i monti lontani, nell'immensa pianura del Campidano e varcò perfino il mare. I viandanti raccontavano di Buzzerrone protagonista di orripilanti vicende cui avevano involontariamente assistito. Egli veniva qui perché sapeva che io solo credevo alla sua storia. Lo uccisero i barracelli davanti al vecchio mulino, aveva al collo un rosario e dentro la bertula un  libretto  di preghiere che s'imparano  al  catechismo. Dissero che, dopo una lotta furiosa, rischiando la vita, avessero vinto il pericoloso bandito. Qualcuno si ferì coi rovi, altri con pietre taglienti per avvalorare quella tesi vigliacca. Invece Buzzerrone andava incontro alla masnada con le braccia alzate invocando la misericordia del cielo. Anni dopo, quando il ricordo diventò sbiadito, raccontai quanto sapevo sul conto di quel disgraziato: mi risero in faccia, mi dettero del matto ed allora ritenni fosse prudente cucirmi la bocca.»

«Il mondo è al rovescio.» Dissi non sapendo che dire.

Un volo di folaghe attraversò quel che restava del fiume, posandosi sopra i rami spogli dei salici. Forse deluse da tanta desolazione ripartirono in un frenetico sbattere d'ali. 

Zonach trasse dalla bocca il mozzicone di sigaro e lo rispose dentro il taschino del corpetto.

«E di San Sisinnio?», più che storie di banditi mi affascinavano quelle dei santi.

«L'aneddoto più ricorrente è quello del passaggio negato. Durante la dominazione spagnola si pagava un dazio sui ponti e sulle strade in qualunque punto si entrasse in paese: un tributo ingiusto che si aggiungeva agli altri dissanguando la popolazione. San Sisinnio era un frate questuante, scalzo, pieno di acciacchi, che andava di casa in casa chiedendo l'elemosina che ridistribuiva alla povera gente. Si diceva che avesse nei piedi i chiodi della croce di Cristo. Possedeva soltanto una sacca ed una fede d'acciaio. Egli evitava gli sbirri posti a sbarrare le strade non avendo i soldi per pagare il tributo, e imboccava impervi sentieri per adempiere al servizio cui era preposto.  D'estate aggirava i posti di blocco attraverso budelli segreti. D'inverno la piena del fiume circondava il paese e l'unica via restava quella del ponte.

Sisinnio si presentò davanti ai soldati tentando di smuovere i loro cuori con la pietà e la compassione. Al netto rifiuto il buon frate si avvicinò alla riva e sostò in preghiera. I gendarmi guardavano stupiti quell'uomo mingherlino davanti alla corrente impetuosa. Sisinnio mise un piede nell'acqua, avanzò senza affondare e continuò il cammino superando i gorghi, le onde, la violenza dei flutti e sembrava volare. Gli esterrefatti soldati caddero, pregando, in ginocchio e San Sisinnio giunse sull'altra sponda col saio asciutto. Il dazio fu abolito e il frate morì da lì a qualche giorno, acclamato e pianto dalle popolazioni dei paesi vicini.»

«Storie che fanno bene al cuore.» Dissi con una punta di commozione.

«Un tempo si festeggiava il Santo ed era la festa più grande in paese. Il prete benediva il fiume prima che iniziasse la messa. In corteo, col simulacro, la gente attraversava il guado per propiziarsi buoni raccolti e la salute. Anni felici, sobri, semplici e sani. Poi il progresso ha cancellato le feste, ha modificato l'opera del Creatore.»

«Purtroppo - confermai rammaricato - il riordino ha sconvolto la spianata di S'Isca: le ruspe hanno sterrato i laghetti circondati dai salici, i rii cristallini correnti fra leggiadre sponde di fiori, hanno zittito le raganelle, strappato le variopinte cascate di convolvoli scendenti tra siepi di more, maciullato i verdi tappeti di ninfee ospitanti le garrule libellule in gioco ed interrotto per sempre il festoso carosello di uccelli ed insetti. Oggi vi crescono piatti campi di orticole, circondati da freddi fili spinati.» Conclusi malinconicamente, mentre il sole saliva prepotentemente allo zenit.  

«Allora trovavo i pesci fin sulla soglia di Chiesa - disse indicandola, ai confini di S'Isca - in ogni anfratto acquoso vivevano migliaia di anguille, carpe, tinche, trote dorate, ed una infinità di uccelli danzavano in aria e si posavano senza paura nei cortili in mezzo alle oche.»

«Ci venivo con gli altri ragazzi, d'estate, quando non si poteva andare al mare e nuotavamo in posti denominati: il primo "l'Abisso" e l'altro il "Golfo", uno a sud del ponte e l'altro a nord.»

Parlavo stanco, perso in un mondo lontano, irripetibile, e m'immedesimavo ancora fanciullo a sguazzare fra le canne e le folaghe in un interminabile gioco di spruzzi d'acqua. I lunghi anni trascorsi all'estero, lontano dalla mia isola, non avevano cancellato minimamente la nitidezza di quei ricordi.

Zonach intrecciava un giunco, rapito in una rassegnata convinzione di capire le cose brutte del mondo e non poterci porre rimedio.

Ci si tuffava da un rialzo di canne fino a novembre quando il fiume ingrossava e restavamo a guardare la turbolenza dell'acqua. Erano gorghi maligni saettanti all'imboccatura degli archi e sembravano voler trascinare i pilastri in cemento. La golena veniva sommersa e sparivano le canne, le terre a pascolo e la marea limacciosa cozzava contro gli argini, in un defluire potente di detriti veloci, che si perdevano a Mare Foghe. Col passare degli anni la terra non più inondata dalle benefiche piene si è impoverita ed oggi vi buttano ogni sorta di porcherie minerali. Non potranno mai sostituire il limo del fiume. Le verdure crescono gonfiate ed insapori.

«Li vedi - continuava Zonach, che sembrava carpirmi i pensieri e indicando i quadri simmetrici - hanno fatto di S'Isca un immenso campo di calcio, senza più uccelli, né pesci, ha perduto l'incanto dei tempi andati.»

Ci avviammo verso il paese costeggiando l'ultimo tratto di fiume e Zonach si segnò col segno di croce. Incastonata ad un masso, messo lì apposta, si vedeva una targa in marmo con su scritto: "Ora che non siamo più Aldo ed Alfonso, a voi viandanti chiediamo un'umile preghiera".

«Povere anime, prese dal fiume in un caldo pomeriggio d'ottobre, ancora mi rode il rammarico per quell'infausta giornata. Le prime piogge avevano ingrossato il letto e l'acqua correva veloce e nervosa, piegando gli steli delle tife. Aldo e Alfonso giocavano a riva e ne ero felice, saltavano sulla bassa corrente e mi avvicinavo per poterli avvisare che la stagione non era adatta per prendere i bagni. E' stato un lampo, un pensiero improvviso, di quelli che non ti lasciano il tempo per ragionare: poi con raccapriccio li ho visti sparire e andavano su e giù presi dai gorghi e poi più nulla. I loro corpi galleggiavano il giorno dopo fra le ninfee di Mare Foghe e l'intero paese piangeva e si univa al dolore ed alla disperazione dei padri e delle madri. Talvolta il fiume tradisce e bisogna trattarlo con prudenza e rispetto, ma spesso è dispensatore di gioie, ti ripaga dei sacrifici e ti culla come un bambino quando è assopito  dalla calura estiva. Allora puoi lasciare andare il fassone fra le canne, sicuro che si fermerà sui banchi di sabbia alle sponde.»


Oggi ho la sensazione che Zonach parli ancora sotto le arcate del ponte, oppure stia a spiare tra i cannicci, o spingendo il fassone con la sua lunga e robusta pertica di olmo. Il sole è ad una spanna dal Nuraghe Tradori e spande sulla superficie dell'acqua, appena increspata dalla brezza serale, migliaia e migliaia di lamelle d'argento.

 

«Sulla riva del vecchio ponte ho incontrato Sofia - diceva, e s'illuminava subitamente di una luce profonda e rapita - mentre immergeva le coperte nella corrente. Passavo e ripassavo impertinente, fermavo il fassone sulla riva a poca distanza da lei, fingendo di scrutare il fondale. Ella se ne accorgeva e rideva al mio indirizzo: un riso di giovanetta divertita, sbracciata, tutto un rossore e un prodigarsi più del dovuto a sciacquare e risciacquare i panni. Intorno a me si trasformavano gli alberi in festanti giganti, i salici cantavano meravigliose canzoni, ballavano i pesci in mezzo alle ninfee sovrastate dal volo concentrico delle anatre seguite dalle folaghe, dal martin pescatore, gridavano di gioia i tarabusi e tutto il creato si compiaceva di esistere al cospetto di Dio e degli uomini. Poi ci sposammo, Sofia era una cuoca provetta, nacquero i figli ed io sempre a solcare le onde di Mare Foghe, risalire il fiume fino a Tramatza e godere di tante albe e tramonti, e con esse il cambiamento delle stagioni.»

Zonach si fermava a pensare in silenzio quando io avrei voluto ancora ascoltare la sua vita passata. In tali frangenti rispettavo il suo raccoglimento e riandavo al mio tempo vissuto tra gli argini ed il ponte nuovo. A metà primavera si erano iniziati gli sbancamenti ed io giovanetto portavo il mangiare a mio padre. Centinaia di lavoranti trasportavano con le carriole di legno la terra, in un incessante andirivieni. A poco a poco gli argini ed il ponte prendevano forma, si alzavano al cielo, s'ingrossavano, si rivestivano ed infine, come sorti dal nulla, apparvero in tutta la loro imponenza, fra le acclamazioni degli operai ed il tripudio della cittadinanza.  Il fiume ancora correva veloce, pulito, argentino, ricco di pesci, uccelli e vegetazione. Zonach poteva pescare in abbondanza, indisturbato. Anch'io provai l'ebbrezza dell'amo, un rito: catturare i gamberetti, infilzarli, gettare la lenza e tirare in secca i pesci guizzanti.   

«Qui volano solo mosche e zanzare.» disse ridendo e guardandomi mimare lo strappo della canna a terra.  Risi anch'io ed egli seguitò a raccontare.

«Allora non esisteva la luce elettrica, gli acquedotti, ma forse ti annoio con queste storie.» Disse allontanando da sé una mantide religiosa semi intorpidita dal fresco autunnale.

«Che altro ci resta di questo fiume, se non i ricordi.» Lo tranquillizzai.

«Le donne scendevano al fiume con a fianco le figlie e in testa le brocche. Si calavano fra due enormi lastroni di pietra e ripartivano verso le loro dimore. Il posto si teneva in grazia di Dio, vi avevano piantato le rose, i gelsomini e tra essi sorrideva una madonnina di legno protetta da un vetro e incavata nella parete di selce. Sia d'inverno che d'estate era adornata da fiori freschi ed un lumino ad olio rischiarava l'interno dell'icona. Stranamente non fu mai danneggiata dalle piene del fiume e si gridava ogni volta al miracolo. Forse era ben preparata la nicchia. Gli uomini rientravano a casa col tramonto inoltrato, stanchi per la lunga e faticosa giornata, dovevano mangiare in fretta, a lume di candela ad olio. La notte non riusciva a placare la stanchezza accumulata durante il giorno, a zappare, mietere il grano, arare a cavallo, ed altri infiniti lavori campestri. Quest'acqua era la sola che si potesse bere, preparare i bolliti, la minestra ai bambini e la si adoperava, benedetta, in chiesa.»


Sbigottivo ed inorridivo vedendo l'acqua avvelenata cosparsa di schiume e vecchiumi arenati alle sponde. Possibile che fosse lo stesso fiume? Quello raccontato da Zonach.


«Era proprio in quel modo, - mi rassicurava vedendomi incredulo e titubante - ma lo scempio più grande fu lo sterramento di Mare Foghe, nato col mondo, e me ne duole il cuore più di ogni altra cosa.»  Zonach ebbe un silenzio di sofferenza e vidi due lacrime spuntare dagli occhi, scendere lentamente sulla barba canuta e perdersi fra la gramigna.

«Mi tolsero il cuore, il sentimento di vivere, la mia stessa vita e non m'importava più di morire. Le draghe ruggivano incessantemente di giorno e di notte, mangiando e bevendo il fango e l'acqua. Le voraci fauci dei mostri metallici in poco tempo provocarono un'immane catastrofe in un luogo, ove, nessuno mai, aveva osato profanare.

La laguna di Mare Foghe venne ridotta ad un anonimo canale senza più gli olmi secolari, le immense distese di tife, le tante specie di uccelli, di insetti, di pesci: un orizzonte piatto, brullo alle rive, ove biancheggiavano miriadi di lische calcinate dal sole. Distrussero la mia baracca insieme ai pioppi, agli olmi che accatastarono sul promontorio. Quel che più spiace - Zonach si asciugava il volto - è l'indifferenza umana e l'ottusa determinazione verso il creato.»

Fu l'ultimo incontro col vecchio e sembrava volersi scaricare di un pesante fardello.

«Nessuno ascoltò le mie suppliche, le mie preghiere e anche le maledizioni. In quel tempo era lecito smantellare anche le stelle, la luna e tutta la volta celeste.» 

«L'uomo è la peggiore specie di bestia - dissi annodando un giunco - vedi, con questi legavamo le palme del Sinis. Nel dopoguerra imperava la fame e la miseria e si tirava a campare. Le scope, intrecciate coi giunchi tagliati a Mare Foghe, si rivendevano in cambio di pane ed altri alimenti. Apparve la televisione in due bar locali; le uniche nell'intero paese. Quando iniziavano le trasmissioni si svuotavano le case, si abbandonavano i campi e la gente affluiva in massa senza distinzione di fede o partito. Mio padre era stato categorico in proposito: "Se non hai finito di annodare i giunchi niente televisione".»

Zonach rise di gusto, dimenticando per un istante il passato. Poi si adombrò nuovamente come un sole fugace uscito e subitamente ricoperto da una coltre di nubi. 

«Prima della televisione - ripresi - sguazzavo nelle pozze naturali di S'Isca, insieme ad Ottavio. Ragazzetti alla deriva, stracciati, scalzi, sporchi dall'alba al tramonto, coi padri sempre arrabbiati, pronti alla cinghia e al bastone. Oggi nessuno ci crede. A noi si era unita Serenetta dichiarandosi la fidanzata ufficiale di Ottavio. Figurina magra e sottile coi capelli fluenti, lunghissimi a toccare la terra. Ella ci seguiva saltando i fossi, rincorrendo le bisce, partecipando ad ogni sorta di gioco ed io ne ero geloso. In quei frangenti, per mero dispetto, la pizzicavo e lei gridava contorcendosi come un'anguilla; noi ridevamo e ne approfittavo tirandogli la chioma e trascinandola in mezzo al fango. Morì di polmonite, prima di Pasqua. Io ed Ottavio sentimmo le campane suonare a morto e chiesi se gli dispiaceva che fosse morta ma, lui, alzò le spalle e continuammo il nostro vagabondare in riva al fiume.»

«Sembrano tempi lontani, di un'altra epoca, sconosciuta ai giovani d'oggi, in realtà quelle cose sono dietro la porta, come la vicenda di Giovanna Maria, figlia di un ricco proprietario terriero.» Zonach sembrò riflettere, a capo chino, accarezzato dai rami pendenti del salice mossi dal vento del sud.

«Costui possedeva le migliori terre del circondario e aveva tre figlie in età da marito. Una di queste Giovanna Maria si era infatuata di un giornaliero povero in canna. La solita storia comune dei ricchi e dei poveri. Ella si struggeva d'amore e di disperazione a causa dell’opposizione e dello sdegno del padre. Venivano sotto gli olmi in una nicchia naturale di canne presso la mia baracca. Quel giorno pioveva a dirotto e li condussi con me al riparo. Accesi il fuoco, preparai un arrosto di muggini e gamberi. La pioggia batteva sul solido tetto di tife mentre si spandeva un dolce tepore. Mangiarono e bevvero il vinello d'annata. Poi riapparve il sole e Bantine e Giovanna Maria si lasciarono con la morte nel cuore.

Inevitabilmente il padre Costante seppe di quella relazione e prese le contromisure per la figlia e lo spasimante. Quest'ultimo sparì misteriosamente e lei si rinchiuse nella stanza più remota del palazzo per mesi e mesi. Un giorno all'imbrunire vidi un corpo galleggiare, trattenuto dalle ninfee: era Maria Giovanna. Povera creatura! Il padre, forse pentito morì di crepacuore invocando il perdono del cielo e della figlia.»

«Troppo tardi per lui e per lei.» Dissi sconcertato, mentre il sole spariva dietro il Nuraghe Tradori. 

«Andiamo nella capanna, fra poco sarà buio, e gli spiriti del fiume danzeranno intorno a noi.» Zonach lo diceva tra il serio ed il faceto accendendosi un mozzicone di sigaro, spento e riacceso chissà quante volte.

«Dicerie da focolare.» Dissi voltando il naso.

«Credi?». Prese a guardarmi in modo strano. Un brivido mi percorse la schiena e lo imputai al fresco serale.


*********


Per prima cosa il pescatore accese il lume e poi un bel fuoco a rischiarare e riscaldare l'ambiente. La capanna se l'era costruita dopo la scomparsa di Mare Foghe, quasi nello stesso punto dell'altra, in un piccolo appezzamento di terra lasciatogli dal Comune in risarcimento dell'esproprio subito. Da un divisorio di canne trasse della bottarga, pesce essiccato, ed una conca ripiena di anguille in salamoia. Sulla parete pendevano le "launeddas". Una luna a metà sorse dietro la spianata di S'Isca, riflettendosi sulla piatta superficie del fiume e proiettando i rami spogli degli olmi, in lunghe braccia distese sopra le siepi di rovi e fichi d'india. Stranamente era calato un silenzio inusuale, senza il gracidar delle rane, il grido del tarabuso, la danza delle zanzare e l'immobilità mi riportava alla mente terrificanti scenari d'orrore.

«Eh, eh.» Ridacchio il vecchio Zonach nel vedermi imbambolato e con l'espressione degli occhi perduta in siti lontani.

«Eh, eh.» Ripeté sedendosi dirimpetto e posando le cibarie su un ceppo di pioppo. «E' la notte per me, le anime mi girano intorno, mi aspettano, è giunta l'ora di andare.»

«Sei uscito di senno, mangia, da vecchi si ridiventa bambini.» Zonach rimase con lo sguardo incantato, come intontito. Ebbi un moto di stizza per lui e per la mia assurda situazione: in quel posto, a quell'ora di notte, dovevo già dormire fra bianche lenzuola, cullarmi nel dolce oblio del sonno ed invece...

«Solo in quell'anno di guerra una notte così… - Zonach si stava estraniando dal mondo, volava nell'aria, mi sentivo svuotato di ogni energia vitale, ed ascoltavo, attratto da misteriose ed invisibili forze. "Che succede?", pensai - povere anime, morire per mano dei loro fratelli - continuava a parlare il vecchio - vennero stracciati, disperati ed impauriti. Non capivo la loro lingua. Solo alcune parole: "mangiare", "nascondere", e "grazie". Non chiesi altro ed in silenzio li rifocillai: l'ultimo desiderio dei condannati. Fumarono un sigaro, bevvero il vino e rimasero allegri fino allo scoppio delle granate. Non ebbero nemmeno il tempo di una preghiera. Li presero e li uccisero dietro quegli olmi.» Concluse indicando gli stessi che proiettavano sinistre ombre sul prato.

«La guerra genera l'odio che è un veleno mortale.» Dissi svegliandomi dal torpore che mi stava legando carne e cervello.

«Allora si moriva di fame, il grano lo si doveva dare allo stato per nutrire i soldati del fronte. La campagna languiva abbandonata: le vigne morivano invase dai rovi e dalle erbacce, così pure gli olivi, in paese rimasero solo donne, vecchi e bambini. Rischiavo la vita per loro. Mi sentivo inutile sapendo quanti giovani morivano in guerra, e presi l'iniziativa di aiutare, per quel che mi era possibile fare, le famiglie indigenti. La visione di quei soldati giustiziati dai loro stessi fratelli mi perseguitava, come una spina conficcata nel fianco. Di più mi addolorava vedere i bambini chiedere il cibo, le madri piangenti, i vecchi morire senza conforto, e persino i cani per strada camminare per forza d'inerzia, macilenti, ossuti e smagriti all'inverosimile. Il pescato non era sufficiente a sfamare la gente, avevano bisogno di pane e di altri alimenti. Conobbi a Riola un proprietario che riusciva a nascondere il grano e si confidava di non poterlo trasformare in farina, e veniva mangiato dai topi e bucato dal punteruolo. Insomma marciva in enormi bigonce e gli piangeva il cuore non poterlo utilizzare. Sapevo dell'esistenza di un vecchio mulino in disuso, su verso Tramatza, ove l'acqua scendeva impetuosa, prima che si chetasse nella piana di S'Isca. Nottetempo riattivammo il mulino. Trasportavamo il grano con la paura di essere visti: sarebbe stata la fucilazione per noi. Il regime intransigente non permetteva il mercato nero. Forse qualche santo, forse la fortuna ci assistette in quelle notti ed il grano venne macinato e trasformato in pane dalle donne in paese. Fu una goccia nel mare ma, in qualche modo, alleviò la fame ai vecchi ed ai bambini. Il mulino girava al chiaro di luna, sotto la pioggia, col freddo e si zittiva ai rumori sospetti aspettando nuovamente il silenzio. Molte famiglie in possesso di grano vennero coi sacchi in spalla incuranti delle insidie e dei pericoli, sfidando i soldati e le intemperie. La fame prevaleva su tutto, ma tanto, in un modo o nell'altro si doveva morire ugualmente. Fortunatamente la guerra finì ed il mulino poté funzionare alla luce del sole, fino agli anni cinquanta. Poi venne abbandonato, sostituito da quello elettrico, ed oggi vi sono rimaste solo le fondamenta coperte dai rovi e dai fichi d'india. La gente dimentica in fretta, il tempo è una gran medicina, nessuno più ricorda il mulino di Ponte Zoppo, e nessuno ricorderà il vecchio Zonach. Senti il tarabuso, quando mai canta di notte? Eh, eh, arriva è dietro la porta, salute!» E bevve con una strana espressione sul viso. Il vinello andava giù piacevolmente e con esso si scioglievano di più le parole ed i pensieri. Riandò alla sua gioventù, alle prime volte nel fiume, riesumò il padre, la madre, i fratelli ed infine, come spossato, si avviò a dormire. Nei suoi occhi brillava una contentezza anormale. Lo accompagnai al giaciglio.

«Riposa, la notte è umida e fredda. Domani sarai più vivo ed arzillo di oggi.» Lo rassicurai rimboccandogli la coperta fino alle orecchia.

«Domani sarà un gran giorno, metti altra legna sul fuoco, quel ceppo, l'ho conservato per questa occasione.»

Non riuscivo, o forse non volevo capire, ma intuivo e subitamente ricacciavo l'idea assurda che mi ottenebrava la mente. Zonach si assopì, sereno, contento, coi tratti del viso distesi da una gioia profonda. Uscii sotto la luna ad osservare l'esile corso del fiume e l'immobilità delle canne e degli alberi. Il torpore della sigaretta m'indusse ad un certo rilassamento, una nebbia sottile, resa bluastra dalla luce lunare, si spandeva e lentamente calava sopra la vegetazione delle rive e avanzava verso di me. Sentii qualcosa di gelido sfiorarmi il volto ed ebbi un repentino sobbalzo. "Sarà qualche insetto notturno", pensai. A riprova di ciò vidi le nottue danzare sul lume ad olio e Zonach disteso, immobile, perso nel sonno. Due occhi fosforescenti ristavano immobili sopra i rami scarnificati dei salici, facile facile pensai ad una civetta. Di cosa dovevo temere se non la mia stessa ombra? "E' dei vivi che dobbiamo avere paura, i morti non hanno mai recato danni a nessuno", mi sovvennero le parole lette da qualche parte. Intanto la nebbia s'infittiva nascondendo, in un involucro lattiginoso la luna e le cose intorno. Il fiume fumava a lente spire e improvvisamente presero forma. Si mossero le ninfee camminando sull'acqua simili a polpi dai lunghi tentacoli: guadagnavano la riva e si avvicinavano alla baracca. I rami pendenti degli olmi presero vita, si raddrizzarono al cielo agitandosi freneticamente, mentre i fichi d'india scoppiavano proiettando la grassa e carnosa polpa in tutte le direzioni. Avanzavano, lenti ma inesorabili, i pali dello steccato, proiettando minacciosi le punte affilate verso di me. Dal promontorio si mossero i massi, rotolando giù sempre più veloci che avrebbero travolto ogni cosa. Sentii una ferrea stretta alle caviglie, e un viscido abbraccio alle spalle. Mi divincolai caddi sull'erba bagnata dalla rugiada serale, mentre un lungo serpente spariva fra l'erba per immergersi, poi, nell'acqua del fiume. Il terrore mi avrebbe ucciso prima di quella natura distorta e urlai alla luna. Il grido parve rasserenare le forme in movimento le quali ripresero l’aspetto di prima. Mi sentì sollevato. Risedetti sullo scranno. Zonach seguitava a dormire, immobile, con l'espressione del viso tranquilla, beata, come immerso in paradisiaci scenari di un mondo lontano e sconosciuto. Respirai l'aria umida del fiume e immediatamente cercai le sigarette. Era stata un'atroce illusione? Mi chiesi aspirando il veleno. Mi convinsi che il contesto, la giornata trascorsa, lo stress lavorativo di tutto un anno, il primo giorno di ferie ed il rientro in Sardegna mi avessero causato quelle maledette visioni.

«Siamo qui, davanti a te Aldo ed Alfonso, vieni con noi, qui c'è il fiume più bello del mondo.» La voce usciva da un equiseto, melliflua e accattivante. Dietro seguivano i soldati tedeschi col morto sopra le spalle, Buzzerrone rideva sopra i rami dell'olmo e con un urlo cadde in mezzo alle foglie spinose dei fichi d'india. Qualcosa mi si avvinghiò alle caviglie e prese a trascinarmi verso il fiume: tentavo disperatamente di afferrare quanto potevo ma riuscivo solo a lacerarmi le mani, poi sentii l'acqua bagnarmi, dapprima le gambe e via via fino al collo e sprofondai giù nel buio assoluto. Morivo e vedevo una luce abbagliante farsi più intensa ed una figura vestita di bianco si avvicinava.

«Zonach!» Esclamai.

«Si, ho trovato il fiume che, invano, cercavo da sempre, vieni con me.» La luce si colorava di intensi colori e gradatamente apparvero i primi salici, mossi lievemente da un vento primaverile. L'aria odorava di menta, e volteggiavano miriadi di luccicanti libellule, cantavano i grilli, gracidavano le rane, saltavano le cavallette, sopra dei cannicci dorati, e la gramigna tappezzava le sponde di un fiume ove i pesci saltavano allegri in un incantato gioco d'intrecci.   

Sedevano sopra le vecchie rovine Aldo ed Alfonso, il soldato tedesco e Buzzerrone attorniati da anatre e folaghe. Tutte sguazzavano liete e rientravano i martin pescatori nei loro nidi.

«Dove siamo?» Chiesi smarrito. Zonach parve eludere la domanda.

«Non ci saranno più piene, né veleni, nessuno che guasti questa meraviglia del creato. Il mio fiume non poteva morire, e lo sapevo da tempo, ora devo andare, senti mi chiamano, addio.»  Disse indicando le vecchie rovine. Scomparvero insieme a Zonach l'incanto del posto e una nebbia coprì le piante, il fiume, e tutt'intorno si fece buio e urlai con quanta forza avevo in gola.

Mi riscossi sudato, tremante, seduto sopra il ceppo accanto all'imbocco della capanna. Un leggero chiarore si delineava nella piana di S'Isca ricalcando in chiaroscuro le prime ombre dell'alba. "Cribbio!", esclamai tastando l'erba e la parete della capanna. Ero disteso sopra la stuoia, la bottiglia vuota del vino, intirizzito dal freddo umido ed un gran mal di testa.

"Solo un sogno, nient'altro che un sogno", pensai contento". Il chiarore diventava più intenso e le cose ripresero forma. Dalla porta semichiusa vidi che il fuoco languiva e Zonach dormiva, immobile, con una espressione di beatitudine sul viso. Rinfrancato mi scossi dall'ultimo torpore ed entrai nell’abitacolo per scaldarmi un pochino. Sedetti di fronte alle braci e trassi un istantaneo sollievo. Feci piano per non svegliare il dormiente. Un pallido e debole raggio di sole si posò sul giaciglio di Zonach e ripresi il mio consueto umore, pensando ch'era ora di andare. Avrei preso l'aereo di sera, e l'indomani a scontare la pena in quella galera d'ufficio. Al pensiero ripiombai in una cupa tristezza che scacciai subitamente, non mi restava altro da fare che salutare gli amici, mio fratello maggiore, l'unico familiare che ancora mi legava al paese e visitare la tomba di Sergio, amici da sempre, scomparso da un anno.

«Sveglia dormiglione, devo lasciarti.» Lo toccai leggermente sulla coperta aspettando la sua reazione. Ma quella non venne. «Oddio.» Gridai disperato. «Zonach, Zonach, vecchio amico mio, che scherzi mi fai?» Piansi, piansi a lungo: era stato lui a lasciarmi, e mi aveva rassicurato, durante la notte che aveva trovato il fiume che andava cercando da tempo. Quel fiume della sua giovinezza, pulito, gorgogliante di vita, dalle sponde fiorite e dal profumo di menta.


***********


Un anno è trascorso dal funerale di Zonach, da quel giorno di fine ottobre, e mi avvio mestamente al paese, lasciando alle spalle un rivolo d'acqua invaso dal giallume malato delle gramigne, dei cannicci sfioriti, dalle sponde ospitanti i segni del progresso maleducato e la cadente capanna di Zonach.

 

===========